Un ballo in maschera
I soggetti ritratti da Giada Fedeli nella sua recentissima produzione pittorica sembrano abitare un originale pantheon postmoderno dove le divinità, malinconiche e perplesse, si compongono di corpi, per lo più femminili, sormontati da oggetti, teste di animali e elementi vegetali. Alcune di queste opere, il trittico di grande formato, sono state realizzate a partire da autoritratti dell’artista: sul suo corpo si innestano la testa di un levriero, una tazzina di ceramica e una maschera. Per l’altro trittico, invece, Fedeli ha tratto ispirazione da una serie di polaroid trovate fortuitamente i cui protagonisti le sono sconosciuti; qui sui corpi umani hanno trovato posto la testa di un cavallo, una forchetta e una pianta carnivora. Entrambi i cicli nella loro partizione in tre episodi contengono una specie di cammino iniziatico, come se fossero gradi diversi di una conoscenza interiore. Così, gli assemblaggi mettono in evidenza il centro formale e concettuale dell’intero progetto: la maschera come strumento di conoscenza di sé e come possibile filtro per l’interpretazione del mondo.
Dalle origini della civiltà, nella ritualità tribale e nelle narrazioni mitologiche, dall’universo della cultura tribale alle metamorfosi degli dei greci, si può osservare una linea comune alle più diverse tradizioni attorno all’uso della maschera: ed è una linea che separa il visibile dall'invisibile, quel che si cela da quel che si rivela. La maschera è infatti vocata a rappresentare e chi la indossa presta il proprio corpo a un’altra entità, un dio, un demone, un essere umano defunto o remoto, un animale totemico. Ma il portatore della maschera, mentre si mostra come un altro, oltre la superficie mostra una parte di sé: una qualità dell’entità rappresentata che appartiene anche a lui medesimo. La maschera tira fuori e potenzia aspetti della personalità che in condizioni normali non sarebbero accettabili o esprimibili. Questo è facilmente comprensibile pensando a come funziona la maschera nel mondo contemporaneo, nei tristi resti mondanizzati del carnevale come pure nello spazio immateriale del web, tra identità virtuali, profili e avatar (un termine che, guarda caso, in sanscrito indica l’incarnazione di una divinità). Una osservazione antropologica di questi fenomeni ci permette quindi di dire che non è tanto la garanzia dell’anonimato a produrre comportamenti e attitudini eccezionali, quanto la maschera essa stessa (sia essa tangibile o digitale) a recare nella propria natura, come dispositivo, il viatico per l’esaltazione di quello che altrimenti non si sa di essere o non si sa di poter fare, nel bene e nel male.
Osservando il lavoro di Giada Fedeli in questa prospettiva si possono quindi definire due metodi di lettura diversi per il trittico degli autoritratti e per quello delle opere tratte dalle polaroid. Nel primo ciclo l’artista mette dichiaratamente in scena se stessa, aggiungendo un altro livello a quel gioco di riflessi che vorrebbe in ogni opera d’arte un’autorappresentazione. Il passaggio in questo caso si complica ulteriormente dalla scelta dell’artista di usare delle maschere. E se la tazza può essere decifrata come un arci-simbolo della femminilità e il cane, con i suoi occhi umidi di un’intelligenza più che umana, si riferisce alle note qualità dell’iconologia storica, la domanda sulla maschera che serra il centro del trittico (una maschera del viso dell’artista stessa) può solo rimanere aperta. La maschera in sé, impassibile ed enigmatica, dichiara solo la propria presenza, al punto da negare la naturare penetrazione dell’animo coprendo gli occhi con un frammento di tessuto leopardato.
I rapporti del secondo ciclo funzionano, invece, come una proiezione immaginifica sull’esterno; qui vengono messi in moto quegli strumenti che ci permettono di condividere l’esistenza con altri individui di cui non sappiamo niente: dando loro un nome, conferendogli attributi simili a quelli degli eroi di una fiaba, li avviciniamo a un sentire intimo che contrasta e bilancia l’estraneità. La forchetta, il cavallo, la pianta carnivora sono espedienti di un processo empatico. In queste opere si manifesta anche una speciale attenzione dell’artista per la trattazione materica della tela. Con l’impiego di passamanerie viene ottenuta una tridimensionalità che si coniuga alla passione dell’autrice per gli oggetti le cui immagini costellano tutta la sua pittura.
Tutto l’immaginario di Giada Fedeli viaggia tra estetiche pop e misteri della psiche: da un lato porge un omaggio a quella deflagrazione che lungo il percorso del Novecento ha portato all’irruzione nei recinti sacri dell’arte dell’oggetto (di uso comune, industriale, già fatto, trovato, decostruito, decontestualizzato, riprodotto, etc…). Ma, come in un continuo controcanto, questo aspetto viene ricondotto a una dimensione intima, introspettiva, dove la sfiducia per i fasti della cultura consumista sembra già professata. La sua pittura precipita così in un mondo onirico e non sempre decifrabile (le cui connessioni interne e gli intrecci si rincorrono anche nel libro d’artista che accompagna questo progetto), dove l’artista mette a nudo anche il non detto dei processi, dell’ispirazione, del suo saper trasformare il pensiero in pittura.
Pietro Gaglianò