LUCA DE SILVA
Tutto ciò che si vede può essere un’altra cosa
Quest’opera (alla Galleria La Corte Arte Contemporanea) ha contorni di magia: una magia benefica, ludica ma niente affatto spensierata, ovvero ‘senza pensiero’. Evoca una forma articolata: una sorta di benevolo drago ‘dalle sette teste’ abitatore amico delle nostre favole infantili; un elemento semovente che alita luci invece di fiamme. Oppure una forma polipesca non aggressiva, più vicina ad una dea dalle molte braccia alternate in movimento di danza, più che ad una insidiosa presenza; forse proprio per questo ancor più misteriosa e interrogativa. Ha la struttura di un fiore che prolifera e ondeggia coi suoi terminali cristallini : elementi importanti che richiamano luce e invitano alla trasparenza più che alla minaccia; alla chiarezza più che all’inganno. Oppure è macchina teatrale, pronta alla propria rappresentazione. Quest’opera è attraversata da un sottile, intellettuale enigma, libero di porsi alla visione. Essa è un salto nelle ragioni dell’equilibrio in fieri ; una riflessione sullo stare sospesi tra l’essere e il diventare. E’ una sorta di scultura organicistica che risente della necessità di svilupparsi, di manifestarsi quindi di passare da uno stadio ad un altro cercando i propri progressivi spostamenti d’equilibrio e di identità.
Da un asse tra due sedie nasce e si compone la forma non di un oggetto ma di un organismo in trasformazione che non rimane uguale a se stesso se non nel proprio insieme. Una forma in evoluzione che rimanda a fantasie mitologiche, a immaginazioni ancestrali, a creazioni avveniristiche che di quella evoluzione fanno propria l’essenza, ossia la capacità di automodificarsi per diventare un ‘di più di se stesso’, un qualcosa di più evoluto. Questo ‘più’, nell’opera di De Silva, è cosa interessante perché significa non rinnegare lo stato di partenza, ma portarlo ad una fase ulteriore, ad un passaggio di qualità crescente. Ogni passaggio è il punto di equilibrio. Un punto in continuo spostamento; il punto del divenire degli organismi e delle cose. De Silva tratta le proprie composizioni come organismi appunto, dando loro non solo una forma ma costruendoli in un percorso narrativo identificativo della presa di coscienza di una condizione umana.
In questo senso, l’equilibrio cui alludo è uno spazio affascinante per l’autore, una terra di mezzo, una zona di medietà fra due stadi e condizioni di essere, di esistere; uno stato mai definito compiutamente, né definitivo e in continuo spostamento. Non un equilibrio imperturbabile, dunque (cosa impensabile per DeSilva per il quale tutto sembra invece essere ‘perturbabile’, modificabile, evolvibile soggetto a situazione plasmatica dagli esiti originali, talvolta imprevedibili e mai scontati); ma un equilibrio che si compone a strati successivi , una meta da raggiungere e forse mai raggiunta. Non ci si riferisce dunque ad un equilibrio aureo, formale, secondo la perfezione della ragion geometrica, frutto di una estetica mentalmente prefigurata: è piuttosto un campo provvisorio, risultato di forze naturali e di stimoli intellettuali che si cercano e si incontrano, punto di posizione tra essere e poter essere, elemento di crescita e punto di congiunzione tra le varie possibilità di diventare qualcosa d’altro. E’ il combinato di due elementi, frutto di consapevolezza che tutto sulla terra, e nella vita, è fatto di materia e di spirito che inseguendosi possono coesistere e che devono comunque trovare una convivenza, nella vita come nell’arte, soprattutto nell’arte, che di questo oscuro equilibrio si fa volentieri espressione. Esso indica , per De Silva, una regione sospesa tra stare e diventare (essere e divenire) ; una zona d’ombra da esplorare; e condizione di sopravvivenza. Al tempo stesso è meta di un divenire dentro il quale lotta e si afferma l’essere umano. E’ l’equilibrio tra natura e cultura dove l’elemento selvaggio (il primordiale) evolve in intelligenza di sé e delle cose. Allora queste forme e figure, afferrate tra realtà e immaginazione, irrompono nella vita presentandosi come elemento di coscienza della trasformazione dell’essere, sintomo e segno di un passaggio di valore paradigmatico che coinvolge generazione e cultura.
Questo lavoro/scultura/composizione/organismo che si presenta come work in progress, si fa discorso sulla cognizione delle cose e del mondo, dichiarazione di intenti filosofici sul percorso che, nell’arte come nella vita, facciamo per raggiungere le nostre consapevolezze. E’ un cammino verso la presa di coscienza dei passaggi e degli sforzi che compiamo (o possiamo/dobbiamo compiere) per raggiungere le nostre mete insieme alle ragione del nostro fare. Ecco l’itinerario di questo organismo che , da corpo oggettuale, si fa corpo psicologico in una trasformazione simbolica e intenzionale. L’oggetto non è quello che sembra (solo oggetto) ma indica qualcosa di più a chi lo sa vedere . Indica un oltre a chi guarda con l’occhio -della mente, dell’arteche produce immagini. E sogni.
In questa libertà creativa - rivendicazione, da parte dell’artista, del proprio modo di riflettere e ragionare sul mondo- queste forme (mi riferisco a questa opera) acquisiscono la loro forza rappresentativa. Prendono i loro significati. Questa composizione parla di …un cammino di conoscenza.. Ma vediamo l’opera. Innanzi tutto la scelta dello spazio: la sua collocazione non è casuale. E’ uno spazio che richiede avvicinamento; chiede di essere esplorato. Due colonne quasi lo coprono , a limitarne lo sguardo. E al tempo stesso ne incentivano l’osservazione dentro un perimetro. Una specie di arca virtuale. L’asse e le sedie evocano un letto, spazio di vita; richiamo accogliente, elemento coniugato al corpo. Palcoscenico di simboli ,di azioni , di sentimenti. E di un racconto. Da esso partono suggestioni creative. L’emisfera ne è parte, come un grembo generatore, figura di riferimenti ancestrali. Ventre da cui si irradiano energie che prendono forma saettante.. [E’ terra, urna, culla, uovo..] Al tempo stesso, è materia oscura dell’universo, sostanza cosmica, che partecipa al principio delle cose, contenitore degli elementi naturali che danno inizio e forma al mondo. Si articolano le sette braccia guizzanti, elementi vitali di un candelabro panico imbevuto di forze che irrorano la natura, la terra, innalzandosi fino a toccare il cielo. Sette sono le sorgenti, sette le fonti, sette le vie, le possibilità infinite come il numero magico suggerisce. Sette le partenze per percorrere le innumerevoli, molteplici strade della creatività. Le mani non sono casuali: sono strumento di quella creatività; mezzo per produrre, per fare: artem facere .. Ed esse che forgiano oggetti, mettendoli in forma appunto, dando forma a cose e a pensieri, veicolando esigenze creative, tengono nel palmo e nel loro pugno il risultato di quel fare che le vede protagoniste. Li brandiscono anche , con fierezza, come punto di un processo giunto ad una conquista. E’ il cammino che riecheggia il mito platonico della caverna; il viaggio verso la cognizione. Più che un oggetto quest’opera è un racconto in forma di scultura. Narra di passaggi, di parti combinate che assumono
valore di riferimento simbolico. Alludono a una sostanza materica e intellettiva, nel percorso di presa di coscienza di un sapere. Ma anche di un essere, di un fare, di un esistere. L’evolversi delle cose non riguarda solo, per De Silva, le mutazioni dell’individuo o di ogni organismo vivente, ma coinvolge anche l’organismo sociale, il contesto in cui tutto avviene. L’antropologia interpella la società; le loro forme si richiamano e si influenzano. E costruiscono simboli d’arte, figure dai molteplici significati. E ancora una volta, anche in questa composizione, l’aspetto serioso è riscattato da una innegabile traccia ancora ludica (perché ludico è il gioco più serio).
Ciò che salva dalla drammaticità è il far capolino nel lavoro di De Silva, di un’istanza ironica, giocosa, consapevolmente auto-critica che fa parte del suo gioco produttivo. Si coglie nei dettagli apparentemente ‘normali’ degli oggetti tenuti nelle mani; nelle sedie banalmente comuni; nei tubi scombinati; nell’insieme così privo di retorica. Ma non per questo meno riflessivo, come l’enigma che lo sottende.
Attilio Maltinti
Aprile 2015