LE FORESTE DI ENRICO PANTANI
Pietro Gaglianò
Il punto di partenza del progetto di Enrico Pantani, un vero e proprio ciclo iconogra co disposto in una moderna cattedrale, è la tradizione della pittura di paesaggio che, come scrive William J. T. Mitchell, “non è un genere artistico ma un medium”, uno strumento scientemente elaborato per trasformare la natura in un oggetto dello sguardo antropico, la destinataria di una narrazione che è la prova e lo strumento di un’appropriazione predatoria, di un abuso. Non a caso la pittura di paesaggio si sviluppa storicamente come racconto funzionale alla descrizione che i poteri sovrani nel XVII secolo fanno dei propri territori, specialmente di quelli invasi con le avventure coloniali, e ha le sue radici nell’elaborazione della visione prospettica che nel Quattrocento orentino soggiace all’affermazione di un antropocentrismo teso a legittimare se stesso e il proprio dominio sul mondo. Il progetto Foreste di Pantani, qui letto come evoluzione estrema della pittura di paesaggio, può essere quindi appropriatamente descritto come la rappresentazione di un fatto politico, della perenne oscenità del potere che si manifesta ottuso e protervo, e che nello sfruttamento scellerato delle risorse segna anche la propria condanna. Con i suoi poveri umani, eroi mancati, e i suoi animali totemici Enrico Pantani sollecita una ri essione sul con itto drammatico e inconciliabile tra uomo e natura, dove l’impossibilità del dialogo (o forse la non volontà di comprensione) affresca il rapporto che la civiltà di marca euroamericana ha edi cato con l’ambiente. Figure di esseri umani in bianco e nero scrutano una natura lieta e autonoma, dai colori pieni, della quale possono essere solo distanti osservatori o violenti colonizzatori, e in questo vuoto, in questa distanza priva di desiderio si trova l’ultima occasione mancata della cultura contemporanea.
Tuttavia non c’è lirismo né bucolica letizia nella pittura di Pantani, non c’è realismo e nessuna tensione naturalista fondata sulla verosimiglianza; quello che viene messo in scena è volutamente un mondo più simile all’idea che della natura può avere un abitante dei suburbi, abituato alle tonalità sintetiche dell’illuminazione elettrica e all’immaginario dispiegato sui muri delle città (e gli animali ef giati, come è evidente, appartengono a un contesto familiare, quasi domestico: non ci sono belve esotiche ma uccelli simili a passeracei, cani, cavalli). La squillante pittura di Enrico Pantani è connotata da una pluralità di evocazioni, dall’illustrazione ai graffti urbani, che matura in uno stile originale fatto di tratti rapidi e colori accesi. Ed è pittura autentica, per il modo in cui si inserisce nel vasto panorama delle possibilità che la gurazione assume oggi, ed è pittura irripetibile, per il modo con cui l’autore rende identi cabile uno stile corrosivo, usato per costruire storie, con immagini e con l’inserimento di testi, i cui disorientati protagonisti si muovono in un universo di storie minime ed emergenze globali.
Nel linguaggio di Pantani gli scenari pop e metropolitani vengono innestati con l’arti cio del simbolo: i dipinti su tela e le sculture in legno concentrano una forma ideale dell’animale, con elementi che si ripetono da un soggetto all’altro costruendo una sintassi gurativa simile a quella delle pitture rupestri in cui precisi attributi (la morfologia delle zampe, dei musi, dei becchi) simboleggiano l’essenza incontrovertibile di determinate animalità. La foresta e i suoi abitanti passano quindi attraverso una sempli cazione estrema e, contestualmente, vengono innalzati al rango di archetipo. La foresta stessa è assunta dall’artista a simbolo di una alterità totale e impenetrabile, spazio arcaico, tto di oscuri signi cati, luogo primitivo animato da una vita autonoma rispetto alla quale il pensiero e l’agire degli esseri umani rimangono perpetuamente estranei; nelle culture tribali, e per lunghi periodi nella storia delle civiltà, la foresta rappresenta la forza primitiva, il più delle volte ostile, con cui l’uomo deve avere un incontro dal quale è destinato a uscire trasformato. Il passaggio all’età adulta, a Sparta come in molte culture del Mediterraneo, dell’Africa, dell’America Latina, era ritualizzato con l’isolamento temporaneo del giovane uomo lontano dallo spazio abitato, in una zona remota a contatto con la natura e con le ere. La trasformazione, simboleggiata da una prova di coraggio, di forza o di sopraffazione, riguardava lo status sociale dell’individuo ma non modi cava la condizione di estraneità del mondo selvaggio che continuava a rimanere antagonista. Ecco perché le foreste, e segnatamente quelle di Enrico Pantani, concentrano le qualità del mondo naturale in opposizione a qualsiasi edi cio culturale, e l’artista attribuisce loro una purezza primaria resa visibile con la trattazione del colore che è vivace e brillante sulle forme degli alberi e della fauna mentre per gli osservatori esterni alla scena mantiene un semplice tratto nero. In questa occasione alcuni soggetti hanno abbandonato la super cie bidimensionale della tela e sono stati tradotti in sculture, feticci possenti e sacrali che invadono lo spazio, mantenendo quel carattere di alterità che nella ri essione innescata dalla mostra è un sintomo e al tempo stesso una causa della crisi planetaria.